IN ROSA

1986
IN ROSA 
ed. Melli 
pag 120
Esaurito 

Storia di una madre che segue il figlio nelle carceri speciali accusato di terrorismo -anni Ottanta

Prefazione di Giorgio Bocca

 

 

In Rosa — è la storia di Rosa Milanesi (madre di Stefano, uno dei primi compagni Va/susini arrestato con l'accusa di partecipazione a banda armata) la quale si trovò improvvisamente a doversi misurare con il fenomeno della lotta armata che coinvolse suo figlio. È un documento storico di un periodo particolare della vita italiana e soprattutto della Valle di Susa
La protagonista Rosa, rievoca tutti i passaggi, non solo personali di fronte ai/o scoprire un figlio, un familiare, inquisito di reati legati al terrorismo e dà uno spaccato delle lacerazioni, della crescita del confronto con questo fenomeno che ha caratterizzato la vita sociale italiana negli ultimi anni.
È una cronaca precisa, quotidiana, di fatti, emozioni, dubbi, una crescita umana e sociale. Ma il dato più importante è l'affrontare, rivisitare, questo spinoso argomento fuori da una visione strettamente giuridica; co/pevolista o innocentista che sia.
È l'affrontarlo da un altro punto di vista, di quelle persone che l'hanno vissuto come scelta dei propri familiari, con cui hanno dovuto fare i conti per non dover perdere la capacità di capire, per non lasciarsi sommergere passivamente dagli avvenimenti.
Un racconto che poco alla volta coinvolge il lettore, ma quasi con dolcezza, come si trattasse di una favola piuttosto che di una cronaca di una dura drammatica e imprevedibile vicenda di vita vissuta.

Redazione di Dialogo in Valle


 

Prefazione di Giorgio Bocca

Leggendo In Rosa di Chiara Sasso ho ritrovato le ansie e l'impotenza della ragione che mi hanno accompagnato per tutta l'inchiesta sul terrorismo. Potrei anche io ripetere le parole dell'epilogo "ma sai quante volte ci penso a queste cose?" Mi è capitato sovente nei colloqui con brigatisti e piellini di avere uno stato d'animo simile a quello di Rosa, di capire e non capire. Tante versioni, tanti racconti, tante ricostruzioni ragionevoli, precise, comprensibili in un contesto assurdo febbricitante, sproporzionato. Sì, uno può cercare di mettere un certo metodo in questo cercar di capire. Può dirsi: non schiacciare la vicenda terroristica nel suo punto finale o drammatico, nel momento in cui il terrorista spara o viene arrestato. Ricordati che dietro c'è una storia fatta di tanti passaggi, che alla scelta della lotta armata sono arrivati passo a passo e ognuno a suo modo, ognuno con la sua irripetibile alchimia di sentimenti, impazienze, nevrosi, generosità.
Già, ma neppure il metodo, neppure la fatica paziente di mettere assieme le storie diverse per ricavarne i denominatori comuni, e il quadro generale riescono a placare a risolvere quel assillante capire non capire che fa di Rosa un grosso personaggio di questa nostra amara esperienza. Sino all'ultima pagina del libro, la protagonista ritoma sul tema della sproporzione e della velleità: "Perché non hanno cambiato niente... Cosa pensavano di poter fare?" E al tempo stesso sa, sente, che se tutto ciò è accaduto, se centinaia di giovani hanno giocato la loro vita doveva pur esserci un irresistìbile movente.
Chiara Sasso è giovane ed ha vissuto fra i giovani coinvolti nella lotta armata e nella repressione. Quì credo che il fatto generazionale abbia importanza decisiva per capire o almeno per accettare che tutto ciò è veramente accaduto e non è soltanto un nostro cattivo sogno.
Solo da giovani si può rinunciare a tutte le imprudenze, rimuovere le paure e decidere sotto la spinta dei bisogni non rìmandabili, di rifiuti in nessun modo contenibili. Una scelta di vita e di morte ridotta a una pulsione divorante: non posso stare dalla parte di chi accetta lo sfruttamento dell'uomo sull'uomo, non posso stare a guardare senza far niente.
E insieme quella motivazione esistenziale che ho udito da Semerìa alla Ponti per quasi tutti i protagonisti della lotta armata.
Proprio ciò che Stefano scrìve alla madre: "quello che a te sembra un modello di vita, per me è intollerabile".
"Abbiamo rifiutato dì occupare i posti che ci avevano prenotati" ha scrìtto una terrorista. Infantilismo schematizzante? Idealismo rozzo? Certo chi ha una minima conoscenza storica della vita associata, chi parte dal pessimismo della conoscenza e della intelligenza sa benissimo che ciò che per Stefano è il più orrendo dei delitti "lo sfruttamento dell'uomo sull'uomo" è in realtà il fondamento insostituibile della società umana. Sono le diversità e non le uguaglianze che permettono alla società di esistere, è la divisione dei ruoli che fa muovere la macchina economica, che tiene in vita le istituzioni dello stato, ivi compreso il suo apparato repressivo.
Sì, come potevano al crepuscolo delle ideologie, alla fine dei miti rìvoluzionarì, alle verìfiche di tutte le utopie stravolte e decomposte come potevano ricominciare, ritentare, non avendo neppure un nemico identificabile? L'assurdità della vicenda terrorìstica era manifesta: si dava vesti politiche, ideologiche vetero comuniste, ma non tentava neppure la lotta di classe. Nei dieci anni di piombo la borghesia imprenditrìce e compradora ha assistito, senza rischiare un'unghia, senza un minimo impegno alla sacra rappresentazione della lotta di classe rivoluzionaria recitata dai ragazzi della lotta armata e dagli altri ragazzi vestiti da poliziotti o da carabinieri.
Il terrorismo pesava sull'intero paese, drammatizzava i rapporti, faceva a pezzi lo stato di diritto, ma in modo quasi irresponsabile come un morbo misterioso. Nessun attentato contro l'esercito, solo alla fine, a movimento ormai moribondo, il sequestro Dozier.
E che rivoluzione si fa se si lascia intatto lo strumento della conservazione sociale? Se non si attacca l'alleanza che garantisce il sistema capitalistico? Che rivoluzione si fa se la classe operaia è opportunista e indifferente o comunque presa da ben altri e più concreti pensieri? Eppure Rosa che queste cose da donna di buon senso le sa o le intuisce non rinuncia all'umanità dei sovversivi, non può accettare che vengano confinati e poi distrutti, fatti a pezzi dalla macchina infernale delle carceri speciali, diventa in qualche modo una di loro, non se la sente di abbandonarli. Rosa è un personaggio grosso e vero. Lo è nella fatica di esprìmere le sue ambiguità, nel non sapere come dire ai giudici quale è la storia degli altri, nel suo cadere e rialzarsi impavida di fronte ai dolori della vita, ai "nidi di vipera" delle delazioni e del pentitismo, di fronte alla crudeltà del mondo. Madre coraggio, potrebbe essere il suo nome. Io credo che la civiltà di un paese si misuri nelle ore delle lacerazioni. Addidata non ai rigoristi ma a coloro che come Rosa non si rassegnano ad accettare gli odi e le spaccature definitive che come lei ricuciono, aiutano, capiscono, anche se sovente capire è impossibile.